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Ponendosi al centro dell’aula in San Filippo e sollevando lo sguardo in direzione zenitale, è possibile notare, vincolata nel punto più alto della volta della lanterna, all’intradosso, una croce patente rossa, inscritta in un ovale ligneo, dipinto di giallo, con bordo bianco. Ad essa convergono le 6 paraste che discendono, proseguendo oltre la lanterna stessa, oltre la cupola ellittica, attraverso gli ordini giganti, fino a terra. La croce patente è un simbolo antico e nobile, di cui troviamo diffusamente traccia già nell’arte bizantina. Essa compare Interno-8Busto reliquiario di San Filippo Neri,
XVIII secolo, foglia oro e argento su legno,
Macerata, chiesa di San Filippo
per esempio nel mosaico absidale dell’«Incoronazione» (11401143) presso la basilica di Santa Maria in Trastevere a Roma, inscritta nell’aureola che cinge il capo di Gesù, in corrispondenza del quale si intersecano le bue braccia della croce. Emergono già due elementi essenziali, strettamente connessi l’uno all’altro: il Santo Volto di Cristo e la Gloria di Dio; diremmo anzi che l’uno è manifestazione dell’altra e ciò avviene con potenza nella Trasfigurazione: «il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide 
come la luce» (Mt 17,2). Questa interpretazione tra l’altro sembrerebbe trovare un felice riscontro ad esempio nell’icona della “Trasfigurazione di Cristo” (metà XII sec.) conservata nel monastero di Santa Caterina del Sinai, dove nell’aureola di Gesù è inscritta una croce patente rossa, mentre la ieratica figura del Messia è avvolta dalla Gloria di Dio, qui raffigurata come una mandorla di colore bianco che avvolge il Suo corpo, dal quale si dipartono 6 raggi luminosi: «e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità» (Gv 1,14). Anche in San Filippo la croce è dipinta di rosso. Nella tradizione della Chiesa, si pensi per esempio ai Ministri degli infermi di San Camillo de Lellis (1550-1614) o “Camilliani”, essa rimanda alla carità, quindi all’essenza stessa di Dio, «perché Dio è amore. In questo si è manifestato l’amore di Dio in noi: Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui» (1Gv 4,8-9). In altre parole, la croce “patente” di colore rosso può non a torto essere considerata come simbolo dell’amore di Dio per l’uomo, che si manifesta, nel suo grado più alto, nella Passione del Signore. Essa è inscritta in un ovale giallo, allusione, questa, alla Resurrezione. Il giallo rimanda al sole; Cristo infatti è come «sole che sorge dall’alto per risplendere su quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra di morte» (Lc 1,78-79). Questo simbolismo doveva certamente risultare più immediato un tempo, quando la volta della chiesa era dipinta in celeste, alludendo essa stessa alla “volta celeste”. Del bordo bianco in parte si è già anticipato come rimandi allo splendore; in un noto inno infatti Sant’Ambrogio definisce Cristo «splendore della gloria del Padre»1. Ebbene da qui si dipartono le 6 paraste. Il numero non è casuale. Scrive infatti San Bonaventura:

«[...] la nostra anima ha tre aspetti principali. Uno è per le cose materiali ed esteriori, secondo il quale è chiamata animalità o sensibilità; un altro è dentro se stessa e in se stessa, secondo il quale è detta spirito; il terzo è sopra di sè, secondo il quale è detta anima. Da tutte queste cose deve disporre se stessa a salire verso Dio, per amarlo “con tutta la mente, con tutto il cuore e con tutta l’anima” (VC Mc 12,30), nella qual cosa consiste la perfetta osservanza della Legge e, insieme a ciò, la sapienza cristiana. Poiché poi si raddoppia qualsiasi dei predetti modi, secondo cui capita di considerare Dio come “l’alfa e l’omega” (VC Ap 1,8), o in quanto accade di vedere Dio in ciascuno dei predetti modi come attraverso uno specchio o nello specchio, o poiché una di codeste considerazioni può essere unita all’altra a sé congiunta e può essere considerata nella sua purezza, da ciò è inevitabile che questi tre gradi principali salgano a sei, affinché, come Dio in sei giorni portò a compimento il mondo intero e nel settimo si riposò, così il microcosmo in sei gradi di illuminazioni che si succedono sia condotto in maniera assai ordinata alla quiete della contemplazione. In figura di questa cosa con sei gradini si saliva al trono di Salomone; il Serafino che vide Isaia aveva sei ali; dopo sei giorni il Signore chiamò Mosè “di mezzo alla caligine” (VC Es 24,16), e Cristo “sei giorni dopo”, come è detto da Matteo, menò i discepoli “sopra un monte e fu dinnanzi ad essi trasfigurato” (VC Mt 17,1-2)»2.

Le paraste, si diceva, hanno origine tutte dallo stesso centro, nella croce che è nell’ovale, e discendono fin nell’aula ellittica. Esse alludono ai raggi luminosi che promanano dal sole e che a loro volta sono figura della luce emanata da Dio, della Sua grazia che gratuitamente discende sugli uomini. Non è difficile notare come, man mano che si abbassa lo sguardo, lo spazio si fa sempre meno luminoso. Questo progressivo degradare dalla luce alla materia, tra l’altro, è sottolineato anche dal diverso uso dei materiali e delle cromie. Ebbene, sperimentando la penombra, ma conservando la memoria della luce, l’occhio è portato nuovamente a salire, con rinnovato slancio, verso la «sorgente della luce»3. Continua San Bonaventura:

«Conformemente dunque ai sei gradi dell’ascensione a Dio, sei sono i gradi delle facoltà dell’anima per i quali saliamo dalle cose infime a quelle più alte, dalle esteriori a quelle più intime, dalle cose effimere saliamo a quelle eterne, cioè il senso, l’immaginazione, la ragione, l’intelletto, l’intelligenza e l’apice dell’anima o scintilla della sinderesi. Questi gradi li abbiamo piantati in noi per natura, deformati per la colpa, ristabiliti per la grazia; devono essere purificati per la giustizia, esercitati per la scienza, perfezionati per la sapienza»4.

I 6 finestroni che illuminano la maestosa cupola ellittica sembrano suggerire le 6 facoltà di cui parla San Bonaventura, con le quali saliamo fin verso la croce, nella lanterna. Nell’aula poi, come già accennato, 12 sono le semicolonne. Questo numero ci suggerisce certo le 12 Interno-21Chiesa di San Filippo: coppia di
semicolonne addossate all’ordine gigante
tribù di Israele, il popolo dell’Antica Alleanza, ma evoca soprattutto i 12 Apostoli: «Chiamò i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri» (Mc 6,7). Forse non a caso, dunque, le semicolonne sono accostate, a 2 a 2, alle 6 paraste giganti, qui definite come emanazioni della luce divina. Esiste infatti una precisa ragione teologica per la quale ogni apostolo non è inviato da solo: «Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» (Mt 18,20). Tale simbologia trova un curioso riscontro ad esempio in un Antifonario del XIV secolo conservato nella British Library di Londra, ove all’interno di un ambiente co
perto sul quale si aprono 6 bifore stanno, al di sotto di queste, i 12 Apostoli radunati intorno a Gesù Maestro. L’ellisse dell’aula poi sembra identificarsi con il globo terrestre: qui, per la voce del sacerdote, dal pulpito si diffonde la buona Novella. Proprio su questo spazio si aprono le 4 cappelle radiali, che riecheggiano i 4 angoli della terra, raggiunti dall’Evangelo, ma soprattutto i 4 Evangelisti, Matteo, Marco, Luca e Giovanni, a mo’ di tetramorfo. Proseguendo verso il presbiterio, si giunge fino ad un secondo lanternino: un elemento tipologico assai meno ricorrente, di cui tuttavia non mancano esempi, anche significati, nella storia dell’architettura. Ve ne è uno, per esempio, nella Santissima Trinità degli Spagnoli in Roma, nel Rione Campo Marzio. La chiesa fu costruita tra il 1741 e il 1746 dall’architetto portoghese Emanuel Rodriguez de Santos. In San Filippo esso ospita una colomba dorata, figura dello Spirito Santo. Le aperture sono 8. Tale numero rimanda in realtà non solo alla Resurrezione, ma alla Beata Vergine Maria, quasi compendio delle 8 virtù: fede, speranza, carità – o virtù teologali – prudenza, giustizia, fortezza, temperanza – o virtù cardinali – e l’umiltà che, come afferma San Bernardo, è «fondamento e custode delle virtù». Scrive infatti San Tommaso d’Aquino: «ciascuno degli altri santi ha primeggiato in una virtù particolare: uno fu soprattutto casto, un altro fu soprattutto umile, un altro fu soprattutto misericordioso. Ma la beata Vergine ci è stata data come esempio di tutte le virtù». Nel Duomo di Firenze, noto col nome di Santa Maria del Fiore (XIII – XV sec.), questo simbolismo viene efficacemente perseguito per mezzo dell’ottagono: la cupola del Brunelleschi è ottagona e ottagonale è l’impianto planimetrico delle tre absidi che a loro volta si aprono sul vano centrale anch’esso ottagono. Tornando a SanInterno-28Chiesa di San Filippo: il Padreterno creatore Filippo, si può pensare tale spazio, che si riempie di luce tanto da divenire appunto “lanterna”, quasi come il grembo stesso della Beata Vergine, la «piena di grazia» (Lc 1,28). Ella è infatti «sposa dello Spirito Santo»5. Nel presbiterio si rinnova quotidianamente il Mistero per il quale Dio perpetua la Sua presenza sulla terra, attraverso le mani del sacerdote, per lo Spirito Santo, così che ancora oggi è possibile dire con Elisabetta: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo!» (Lc 1,42). È nota la devozione, tenerissima, che lo stesso San Filippo nutriva per Maria. «La Madonna Santissima – diceva – ama coloro che la chiamano Vergine e Madre di Dio, e che nominano innanzi a Lei il nome santissimo di Gesù, il quale ha forza di intenerire il cuore»6. A completare il simbolismo trinitario vi è, al di sopra della pala dell’altare maggiore, Dio Padre assiso tra i nembi, in cielo, contornato da putti. Sulla scia delle opere del Guercino, di Ventura Salimbeni, Gian Battista Bertusio o Hendrick van Balen, è ritratto con barba lunga, vestito con una tunica ed in mano uno scettro che sembra quasi poggiare sul globo terracqueo come a ricordare che Egli è «padre provvido e giusto giudice»7. L’opera in stucco è in realtà successiva al progetto del Contini: in origine era stata realizzata una “gloria” in corrispondenza dell’abside, detta anche “occhio di Dio”, vale a dire un’ulteriore fonte luminosa, chiusa nella prima metà dell’Ottocento. Il medesimo tragitto finora delineato può in realtà compiersi nella stessa direzione, ma in senso opposto; tuttavia, per meglio comprendere cosa accade nel ritorno dal presbiterio, verso l’uscita, può essere utile richiamare alla mente, ancora una volta, il Dottore serafico:

«L’immagine della nostra mente deve dunque rivestirsi delle tre virtù teologali, dalle quali l’anima è purificata, illuminata e perfezionata, e così l’immagine viene trasformata ed è resa conforme alla Gerusalemme superna e parte della Chiesa militante, che è prole, secondo l’Apostolo, della Gerusalemme celeste. Dice infatti: “quella ch’è lassuso Gerusalemme, ella è libera; e dessa è la madre nostra” (VC Gal 4,26). Dunque l’anima che crede, spera e ama Gesù Cristo, che è il Verbo incarnato, increato e ispirato, vale a dire “via, verità e vita” (VC Gv 14,6)»8.

L’immagine quasi triandrica del Cristo quale rappresentazione del Mistero Trinitario è oggi desueta, ma viva nella cultura figurativa, ancora nella prima metà del ’700. Nel linguaggio di San Bonaventura, il Cristo incarnato è immagine del Figlio, il Cristo increato è immagine del Padre e il Cristo ispirato è immagine dello Spirito Santo. Nella “Trinità” (XV sec.) conservata nell’Abbazia di Santa Maria di Rivalta presso Tortona, per esempio, compaiono 3 figure, uguali e distinte, aventi le sembianze del Cristo, topos iconografico che tra l’altro ricorre anche nei libri liturgici, come si evince da un prezioso Graduale della fine del XIV secolo del Metropolitan Museum di New York. Vi è poi una stretta relazione tra le 3 virtù teologali e le 3 Persone. Così prosegue il Santo Dottore:

«[...] mentre per la fede [l’anima] crede in Cristo come nel Verbo increato, che è Verbo e splendore del Padre9, recupera l’udito e la vista spirituale, l’udito per accogliere i sermoni di Cristo, la vista per meditare gli splendori di quella luce. Mentre poi con speranza sospira ad accogliere il Verbo ispirato, per il desiderio e l’affetto recupera l’olfatto spirituale. Mentre con carità abbraccia il Verbo incarnato, come assumendo da esso stesso il diletto e come venendo ad esso per un amore estatico, recupera il gusto e il tatto»10.

In altre parole: l’anima è purificata dal Padre, illuminata dallo Spirito Santo e perfezionata dal Figlio Unigenito. Questa triplice progressione è la medesima che si riscontra per esempio nell’affresco della “Trinità e sei Santi” (1505) dipinta da Pietro Perugino nella chiesa di San Severo a Perugia ed è la stessa che si legge in San Filippo. Essa tuttavia sembrerebbe alludere anche a due dei misteri centrali della vita di Gesù: la Sua venuta nel mondo e la Sua morte in croce, cui fa seguito la Resurrezione dai morti il terzo giorno.
Interno-31

Interno-32
Medaglia commemorativa della posa della prima pietra della chiesa di San Filippo Neri in Macerata: recto, 1697, bronzo, Macerata, BCM
Se infatti si legge la sequenza Padre – Spirito Santo – Figlio, si contempla il mistero dell’Incarnazione: il Padre, per la potenza dello Spirito Santo e per mezzo della Vergine Maria, dona al mondo il Salvatore
11; se invece la si legge nel senso inverso, si contempla il mistero della Redenzione: Gesù, morendo sulla croce, dinnanzi a Sua Madre, rende lo Spirito al Padre12. Nei passi esaminati, San Bonaventura scrive inoltre della Gerusalemme celeste. La chiesa costruita dalle mani dell’uomo non è soltanto il luogo in cui l’assemblea dei credenti si raduna per l’Eucarestia: essa diviene quasi immagine della Chiesa militante sulla terra e questa è a sua volta anticipazione e figura della Chiesa trionfante in cielo. Nella medaglia commemorativa della posa della prima pietra, avvenuta il 17 dicembre 1697, oggi conservata presso la Pinacoteca Comunale di Macerata, sul recto è scritto: «IERUSALEM NOVAM DESCENDEN[TEM] DE COELO». Nel verso invece San Filippo intercede presso la Vergine, affinché indichi il luogo esatto in cui la pietra debba essere collocata. Anche quest’ultima immagine ha, in realtà, una tradizione. Si narra infatti che la notte tra il 4 e il 5 agosto dell’anno del Signore 364 la Madonna apparse in sogno a papa Liberio, chiedendogli di erigere una cappella a Lei dedicata nel luogo in cui, il mattino seguente, avesse trovato della neve fresca. Durante quella notte di agosto la neve cadde sul colle Esquilino, in Roma, e lì venne eretta la Basilica liberiana, poi nominata Santa Maria Maggiore. Vi è in tal senso una tavola del Masolino in cui “Papa Liberio traccia il perimetro della Basilica di Santa Maria Maggiore sulla neve” (XV sec.): mentre il Pontefice è nell’atto di definire l’impianto dell’erigenda chiesa della Madonna della Neve, in cielo Gesù e Maria lo guidano e lo accompagnano con lo sguardo. Questo a sottolineare come nella storia della Chiesa alla Vergine è sempre stato riconosciuto il ruolo di Advocata, cioè di Colei che intercede presso il Figlio e guida l’umanità, non di meno nella concretezza della vita, nel fare la Sua volontà; dice infatti ai Suoi servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela!» (Gv 2,5). Sembrerebbero concludere le parole del mistico Dottore:

«Conseguite queste cose, il nostro spirito è reso gerarchico per ascendere in alto secondo la conformità a quella Gerusalemme superna, nella quale nessuno entra, se prima [essa] stessa non discende nel cuore per la grazia, come vide Giovanni nella sua Apocalisse13. Discende inoltre nel cuore allora, quando per la trasformazione dell’immagine, per le virtù teologali e per i diletti dei sensi spirituali e le sospensioni delle estasi il nostro spirito è reso gerarchico, vale a dire purificato, illuminato e perfetto»14.

Allo stesso modo, dunque, chi entra in San Filippo non può uscirne se non interiormente edificato. Afferma infatti il salmista: «Chi semina nelle lacrime mieterà nella gioia. Nell’andare, se ne va piangendo, portando la semente da gettare, ma nel tornare, viene con gioia, portando i suoi covoni» (Sal 125,5-6).

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